"Benvenuto in mia casa. Entrate e lasciate un po' della felicità che recate"
(Dracula)

sabato 1 dicembre 2012

Le mie parole

Nota: Questo è il racconto col quale ho partecipato al progetto "Roba da scrittori - L'ombra dell'ignoto" (maggiori informazioni qui) dal titolo "Le mie parole".  È strutturato come un diario e dunque verrà aggiornato come tale.


Giorno 1
Ogni volta che apro gli occhi è una sfida, un inizio, una dichiarazione di guerra al Fato. Oggi più che mai; mi sono svegliato in una specie di cubicolo dalle pareti bianche, spoglio e spartano: il letto in un angolo, di fronte una dispensa con del cibo pronto da mangiare, un bagno riparato da mura sottili e nell’ultimo angolo una finestra, con sotto uno scrittoio su cui fanno bella mostra di sé un quaderno e una penna. Se proprio devo affrontare una specie di reclusione, almeno potrò farlo nel modo che mi piace di più: scrivendo.


Giorno 4
Ho provato a scrivere di tutto, ma temo che i risultati siano in realtà abbastanza mediocri: l’Ispirazione mi corteggia, mi ride in faccia e se ne va, l’Idea mi accarezza con una mano e mi schiaffeggia con l’altra; ed il fatto che ci sia una sola finestra non aiuta, per niente. È tutto uguale e identico a sé stesso: sui monti lontani il sole e la luna giocano a rincorrersi, muovendo le ombre e poco altro; di tanto in tanto il vento si prende gioco degli sparuti alberi fischiando qualche motivo malinconico. Scrivere così non è poi facile come credevo. Temo perderò la mia battaglia.



Giorno 6
Ho cominciato a strappare le pagine e a buttarle dalla finestra, gran brutto segno. Sento ogni strappo come una ferita sulla mia stessa pelle e l’inchiostro che spreco così mi dissangua. Devo fare qualcosa, ma quello che ho scritto è oggettivamente illeggibile:

«Le immutabili stagioni
mi pugnalano nel tempo
e perdono di me
le ore non viste
Sopravvivrò a me stesso?
Non voglio».


Giorno 10
Sto giocando con me stesso al gatto col topo: sto assottigliando questo quaderno senza concludere niente di buono. Lascio solo le pagine con questo strano diario, forse con l’idea di lasciare qualche segno di me. Ma, ora che ci penso, anche questa è un’idea stupida: chi mai leggerà ciò che scrivo? È strano: per tutta la vita ho scritto col timore che qualcuno mi leggesse e mi stroncasse i sogni, ora che vorrei farmi vedere nessuno poserà mai gli occhi sulle mie parole. Comincio a considerarmi ridicolo, passo dopo passo perdo la mia guerra e persino me stesso.


Giorno 13
Ho bisogno di vedere altro, sto impazzendo! La Fantasia mi ignora, non vuole aiutarmi, il paesaggio sempre identico mi sta annichilendo. So che sembra ridicolo, ma le pareti sono bianche come un foglio di carta, forse posso provare a disegnarci qualcosa, non so.


Giorno 14
Inutile, pure un po’ pacchiano. Ho provato a disegnare una sorta di prolungamento del paesaggio vicino la finestra. Disegno in modo semplicemente inguardabile. Sono sgorbi, scarabocchi. È addirittura peggio di prima. Non so come mi sia potuta venire in mente un’idea tanto ridicola: io scrivo, non disegno. Ridicolo, assolutamente ridicolo. Fortunatamente sono solo e sono l’unico a poter ridere di me stesso. Anche se nelle orecchie qualche risata giurerei d’averla sentita…


Giorno 18
Il quaderno è visibilmente ridotto, sarà circa la metà, forse anche meno. Gli ultimi versi che ho buttato giù recitano:

«Ma se al calar del giorno
la notte ci mancasse?
Se le tenebre codarde
volassero via come le rondini?
Potrebbe il mondo
vivere lo stesso?
Ed io, perso in un mondo dentro me,
potrei?»

Forse non sono male, ma non so più che pensare. Sento decisamente che qualcosa mi manca, e questa assenza mi colpisce con violenza. Sapessi almeno cosa fosse, maledizione!


Giorno 22

È il mondo. Mi manca il mondo. Impossibile da credere, ma penso sia proprio così. Altrimenti non posso spiegarmi quel tentativo ridicolo col disegno sui muri. Solo ora capisco che è il mondo - il mio mondo - a crearmi, a plasmare me e quello che scrivo. E ora che un mondo non c’è? Che posso fare?


Giorno 25

Ho sempre creduto che fossero le parole a creare il mondo. Forse non è così, non lo so più. O forse è esattamente il contrario, sono le parole a dipendere dal mondo. Lo dimostrerebbe il fatto che ora non riesco a scrivere niente di decente. Non credo riuscirò a resistere a me stesso per molto ancora.


Giorno 27
Le pagine del quaderno sono ormai pochissime, devo trovare un modo per preservarle. Forse posso riprovare col muro: stavolta, invece di scarabocchiarlo, posso scriverci qualcosa, anche se non ho idea di cosa.


Giorno 29

«Libertà – Amore – Silenzio – Fantasia – Dolore – Coraggio – Felicità – Solitudine – Calore – Mancanza – Dubbio – Sogno». Queste sono solo alcune delle parole che ho scritto sul muro. È strano: è come se mi sentissi meglio, leggero come il mare che ha deciso di ballare col vento in un abbraccio sottile. Non so se tutto questo abbia un senso, in fondo sono solo parole, eppure hanno cambiato qualcosa. Proverò a continuare.


Giorno 31

«Parola», sul muro ho scritto “Parola”, ed il mio mondo è cambiato: d’un tratto li ho visti, tutti i concetti che le parole ci mostrano, ed allora ho capito che sono loro – le parole – la nostra più grande ricchezza. Disegnano e creano il mondo che non vediamo, ma lo rendono tangibile, vero, vivo: non si tocca l’Amore, il Silenzio o il Sogno, ma sappiamo cosa sono perché ci sono le rispettive parole. Le parole sono tutto, e per chi vuole scrivere non c’è tesoro maggiore.
Ho sentito un rumore, ho visto che di fianco alla finestra s’è aperto un uscio che prima non c’era. Porterò con me questo strano diario, per ricordarmi sempre che con le mie parole conquisto ogni giorno la mia libertà.



P.S.
Come avrete potuto notare questo non è un racconto canonico, vira decisamente e pericolosamente verso il filosofico; è pieno zeppo delle cose che ho studiato. Ho sempre pensato che sia normale che quando si scrive qualcosa ci si inserisca dentro qualcosa che ci appartiene, ma al contempo ho altrettanto sempre sostenuto che quando metti quello che studi in quello che scrivi forse è il caso di smettere con una delle due attività. Visto che ho dovuto (almeno momentaneamente) smettere di studiare, ho deciso di continuare a scrivere. Regolatevi voi di conseguenza...
Questo racconto non ha vere e proprie dediche perché contrariamente a molte cose che ho scritto non ha una "Musa" di riferimento.  È un racconto che nasce "a progetto", ma è un progetto di amici, quelli di "Roba da Scrittori" e del "Salotto Letterario Virtuale". Alle persone che ho conosciuto lì devo questo racconto e la parte di me che vi è connessa; se vogliamo rispettare l'etichetta potremmo dire che è dedicato a loro, ma per come la vedo io non ce ne sarebbe bisogno: questo racconto gli appartiene già.


Mario Iaquinta

domenica 9 settembre 2012

Quella volta che non ho visto De André

Molte persone hanno l’abitudine di ascoltare lo stesso disco ogni volta che vivono un momento particolare, che si tratti di gioia, tristezza, commozione, ecc; conosco chi mette “The Dark side of the moon” dei Pink Floyd, chi ascolta Bob Marley e chi Dylan.
Il mio rituale invece è questo: metto su un DVD che, come è facile intuire, è di De André: “Fabrizio De André in concerto”, registrato il 13 e 14 febbraio 1998 al Teatro Brancaccio di Roma durante il suo ultimo tour teatrale “Mi innamoravo di tutto”. Vedere e ascoltare l’artista che per me significa molto mi emoziona ogni volta, ma ogni volta affiora una specie di piccolo rimpianto: io quel concerto avrei potuto vederlo dal vivo.
Beh, non esattamente quello del Brancaccio, ma un altro, quello della prima data. Quel concerto si tenne il 13 gennaio in un cineteatro a 800 metri da casa mia, ma avevo dieci anni e naturalmente da solo non potevo andare. L’occasione sfumò.
Fu un peccato, per me che già allora conoscevo gran parte delle sue canzoni a memoria, forse non comprendendole pienamente, ma già per me molto affascinanti. Mi consolai dicendomi che avrei avuto altre occasioni in futuro, quando sarei stato più grande.
Fabrizio De André morì un anno dopo, nel gennaio del 1999. Da allora è stato un susseguirsi di riconoscimenti e omaggi, per me sono stati oltre dieci anni di un personalissimo culto al quale è mancato e mancherà per sempre il culmine che nel 1998 era a portata di mano ma che mi si sciolse fra le dita.
A distanza di dieci anni ho assistito al concerto-omaggio del figlio Cristiano, “De André canta “De André”, che si tenne in quello stesso teatro, ma è un “risarcimento” solo parziale.

Mi consolano un paio di pensieri: il primo è che lo stesso De André non ebbe mai modo di incontrare un suo idolo e ispiratore, “il suo maestro” Georges Brassens; il secondo lo condivido con un altro fan di De André, Wim Wenders: «In qualche modo ero felice che restasse questo remoto angelo, santo della musica italiana».




C’è qualcosa di romantico in un pensiero del genere: è giusto che il mito rimanga mito e non venga in qualche modo scalfito dalla visione della persona che lo incarna, perché il rischio di rimanere delusi nel vedere che si tratta di un uomo normalissimo come noi è elevatissimo.


«Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O Anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile.»
- Fabrizio De André


Mario Iaquinta

martedì 10 luglio 2012

A prova di proiettile

«Le idee sono a prova di proiettile.»



La frase, che credo molti di voi abbiano riconosciuto, è tratta da “V for Vendetta”. Parlo della graphic novel, non del film. Dando per assodato che il film sia una gran bella opera, vorrei appunto spostare il focus sul lavoro originale disegnato da David Lloyd ma soprattutto scritto dall’amatissimo Alan Moore.
In questi giorni ho riletto la graphic novel ed è stato come assaporare un grande romanzo. Dopo tutto, l’espressione “graphic novel” significa “romanzo illustrato”.
Questo genere di opere è secondo me paragonabile a pieno titolo ai romanzi veri e propri, soprattutto quando si parla di maestri del genere come sono, giusto per fare due nomi, Frank Miller e Alan Moore. Oltre alla struttura tipica delle produzioni letterarie, come una storia ben definita e autoconclusiva, nelle migliori produzioni si riscontrano elementi degni di nota. Soprattutto la produzione di Alan Moore trovo affascinante (infatti egli è anche romanziere puro), con la costruzione di trame e personaggi in chiaroscuro dalla vivacità sorprendente, con risvolti e temi che superano il mero svago, ma aprono a riflessioni profonde, esattamente come dovrebbero sempre fare i romanzi.
In “V for Vendetta”, oltre alla figura carismatica di V che cattura il lettore, si aprono finestre per concetti e pensieri decisamente interessanti (basti pensare a quando V sull’Old Bailey parla con la “Signora Giustizia”, rinfacciandole un tradimento col Potere e dicendo di avare un nuovo amore, l’Anarchia – intesa nel senso più puro del termine). Discorsi simili valgono, d’altra parte, anche per “Watchmen”, sempre di Moore, o per “Il ritorno del Cavaliere Oscuro” di Frank Miller.
Allora, miei cari e sparuti lettori, la prossima volta che vedete qualcuno leggere un fumetto non etichettatelo come “sfigato” a prima vista. Potrebbe leggere un romanzo di caratura molto superiore a quanto gira adesso, soprattutto visti i vari Voli che vibrano veloci vicino a noi.


Mario Iaquinta

venerdì 15 giugno 2012

Un riempitivo e un finto atto d'accusa

Come si può facilmente capire, questo post non ha senso. O meglio: un senso ce l’ha, ma se ne poteva fare anche a meno. È un riempitivo, serve solo a non lasciare vuoto uno spazio che se non colmato comincia a dare fastidio. Infatti, è da un mese e qualcosa che qui non scrivo niente e per non far morire la pratica dello scrivere ogni tanto tocca mettersi a tavolino e strizzare il cervello; se poi quello che esce fa schifo poco importa, almeno si mantiene in moto qualcosa che se abbandonata si sarebbe estinta.
È il periodo del classico “blocco dello scrittore”, il problema è che ho il “blocco” ma non sono uno “scrittore”…
Tante idee mi ronzano in mente, ogni tanto si scontrano e fanno qualche scintilla, ma non riesco a venire a capo di trame e storie, dunque pazienza. La miglior cosa da fare in periodi come questi e prendersi una pausa, leggere qualcosa, scrivere fesserie come queste per non perdere l’abitudine.

Il problema sono le rose. Qui siamo al finto atto d'accusa.
Già, perché quello che mi viene in mente gira intorno alle rose, fiore che non mi è mai piaciuto moltissimo. La rosa è il fiore più – passatemi il termine – sputtanato della storia dell’universo e la cosa non mi attira. Ma ci sono sempre ‘ste maledette rose, indipendentemente da come giro la situazione. Però le rose sono belle, più o meno oggettivamente, e quindi meglio così che con i fiori di zucca…

Bene, ho scritto la cretinata che dovevo. Spero di farvi avere a breve mie notizie, con qualcosa di utile.
Me se riesco a comprare un libro, “quel” libro, mi divertirò a scrivere di nuovo qui.
Mi sto già leccando “le dita dei baffi”, come diceva Felice Caccamo.

Mario Iaquinta

lunedì 7 maggio 2012

Salotto virtuale, persone reali


Tutto nasce da un’idea, è sempre così. Un anno e mezzo fa, due ragazzi, gli amministratori della pagina Facebook “Roba da Scrittori” Antonio Schiena e Beniamino Soprano, ebbero un’idea (pare, da retroscena, che l’idea fosse più di Antonio che di Beniamino, ma sono dettagli…), quella di un libro di giovani scrittori fan della pagina. Ma le idee, per definizione, sono sì a prova di proiettile, ma incorporee e volatili. Allora i due ragazzi si misero all'opera per concretizzarla e nacque così “Roba da Scrittori – il libro”.

«Galeotto fu il libro e chi lo scrisse…» e i “Galeotti” siamo noi. Da allora, lentamente ma costantemente, abbiamo scoperto che questa passione così elementare e complicata ci avvicinava. Cominciammo, grazie all’iniziativa di Michael “Nonno d’Acciaio” Rigamonti, a dare un seguito a quell’esperienza, leggendoci e commentandoci a vicenda. Fu così che si creò “Il Salotto Letterario Virtuale”, che vede la partecipazione di molti degli autori di “Roba da Scrittori”, ma anche di altre nuove reclute. Il gruppo divenne ben presto un vero salotto, in cui parlare anche di altro; finimmo per conoscerci un po’ e allora fu buttata lì un’altra idea: “Che ne dite se ci incontriamo per una cena?”
Le idee, lo dicevamo prima, sono incorporee e volatili. Poi è arrivata una donna piccola piccola, una bambina già grande che ha trasformato in una famiglia quello che prima era solo un gruppo di personaggi. Sara “Sharee” Fele s’è fatta carico dell’organizzazione di una cosa non semplice e come un minuscolo e caparbio demiurgo ha riunito nove persone provenienti da angoli diversi dell’Italia per un weekend a Roma: ai nipotini racconteremo che quando ancora i nostri sogni sognavano di diventare realtà accadde che Antonio, Beniamino, Michael, Sara, Simona, Ezio, Leonardo, Davide e Mario si videro per la prima volta e finalmente poterono toccare quell’idea che d’improvviso era divenuta tangibile come la carne, le ossa e la pelle delle persone presenti.
Anche stavolta è stata buttata giù un’idea: «Dobbiamo rivederci! Vediamo se riusciamo ad organizzare di nuovo.»
Se e quando ci rivedremo non è dato sapere, non ancora. Ma se davvero tutto nasce sempre da un’idea, quell’idea è già in moto, ed aspetta di trasformarsi da virtuale a reale. Esattamente come è successo al nostro “Salotto”.


Mario Iaquinta

P.S. Se sapete contare, nella foto vedrete otto persone. Uno di noi, tale Ezio, ha deciso di non apparire in foto ufficiali, e dunque si è gentilmente offerto di scattare lui la foto che vedete

domenica 29 aprile 2012

Sulla cattiva strada

C’è un antico rito che, da quando l’ho conosciuto, mi affascina tanto perché lo trovo molto Romantico. È il φαρμακός (pharmakos), l’equivalente del capro espiatorio nell’antica Grecia. Un uomo orrendo, un mostro dall’aspetto orribile veniva cresciuto e curato dalla città a spese della comunità, poi il giorno stabilito questi veniva scacciato via a frustate e lanci di pietre. Era la società che crea qualcosa che odia per poter sfogarsi e scacciare via tutto ciò che le fa paura, un po’ come i famosi “due minuti di odio” nella civiltà disegnata da Orwell in “1984”.
Tutto ciò mi porta a concludere che è davvero necessario che qualcuno stia male affinché gli altri stiano bene: che sia il Fato, la società o la nostra cultura a deciderlo fa poca differenza, è così.
Mi è venuto quindi in mente un altro personaggio, che ha alcuni lati in comune con questi pensieri: è l’uomo de “La cattiva strada” di Fabrizio De André.



La cattiva strada - Fabrizio De André


La strada che percorre in realtà non è così cattiva, ma lo è per la società che gli sta intorno; pure lui è una sorta di reietto. Ma compie uno strano servizio: entra nella vita delle persone, fa tutto ciò che può per migliorarle e poi se ne va. Mentre le persone che lo seguono ad un certo punto possono fermarsi, lui prosegue:

“e quando poi sparì del tutto
a chi diceva «È stato un male»
a chi diceva «È stato un bene»
raccomandò «Non vi conviene
venir con me dovunque vada,
ma c'è amore un po' per tutti
e tutti quanti hanno un amore
sulla cattiva strada.»”


Tutti hanno un amore sulla cattiva strada, tranne lui, che di fatto è la cattiva strada, che non può fermarsi a goderne.
Chissà se la cosa gli pesa… forse no, o almeno lo spero. Vivere sulla cattiva strada non dev’essere bello, ma se sai che lo stai facendo per quelli che ami, allora forse lo fai anche con piacere. E quando verrà l’ora di uscire dalla scena delle loro vite, basta un inchino e un gesto di saluto, tanto loro hanno il loro amore.
Allora forse "adesso è giusto, giusto, è giusto che io vada
sulla cattiva strada"


Mario Iaquinta

mercoledì 18 aprile 2012

Wine & Fashon


Oggi cedo spazio ad una iniziativa a mio avviso davvero meritevole, il "Wine & Fashon". Ecco il comunicato:

Uno degli eventi più caratteristici di questo primo scorcio di primavera si svolgerà presso il Caffè Letterario. Il 20 Aprile, infatti, è il giorno della prima edizione di “Wine & Fashion”, evento che, già dal nome, punta tutto il suo potenziale sull’abbinamento di classe tra la moda e il vino. L’evento è organizzato dall’associazione culturale Juvat, dalla Cr Team di Alberico Salerno e dall’Anga - giovani di Confagricoltura Cosenza, con il patrocinio del Comune di Cosenza. Confagricoltura Cosenza, in particolare, collaborando con le altre associazioni coinvolte, ha voluto organizzare questo evento per porre l’attenzione sul settore vitivinicolo cosentino che possiede numerose potenzialità, che andrebbero sostenute e soprattutto promosse sia sul territorio e sia all’estero. La manifestazione sarà originale e brillante: è raro vedere una corrispondenza così intensa tra due elementi (quali la moda e il vino) apparentemente lontani, ma vicini nel sapere coinvolgere ed affascinare tutte le fasce di età, e in particolar modo le nuove generazioni. La relazione tra il mondo della moda e la pura produzione vitivinicola sarà utile anche per il coinvolgimento di alcune aziende calabresi che proporranno agli ospiti, nel mezzo delle dinamiche sfilate, le migliori bottiglie della propria produzione. Tre le aziende di Confagricoltura coinvolte si segnalano alcune tra le “garanzie” del territorio come Serracavallo,di Demetrio Stancati, Tenute Terre Nobili, di Lidia Matera e Vivacqua, di Filippo Bosa. Ci sarà spazio anche per alcune degustazioni, grazie ai salumi prodotti con il Suino Nero di Calabria, allevato nell’azienda Romano, che ben si abbina alle caratteristiche dei vini scelti. Madrina della serata sarà una giovane campionessa calabrese già protagonista nel territorio. La scelta ricade sulla bellissima Federica Monaco, capitano della No.Do. Rende Basket, squadra che milita nel campionato nazionale di Serie B. Durante la serata, che avrà inizio alle ore 20.00, con accesso accreditato, e proseguirà alle ore 23.00 con ingresso libero, gli ospiti saranno intrattenuti anche con musiche a tema, filmati ed un evento a sorpresa che sarà annunciato in anteprima.


Ufficio Stampa
CR TEAM

venerdì 13 aprile 2012

Mercuzio non vuole morire. Ma deve.

«È vero, parlo dei sogni, io, figli d’una mente oziosa, generati da un’inutile fantasia fatta d’una sostanza tenue come l’aria e più incostante del vento, che spasima ora per il gelido grembo del nord, ma poi, gonfia di rabbia, si svolge sbuffando verso un nuovo amore, il sud umido di rugiada.»

Le parole che avete appena letto sono di Shakespeare, o meglio ancora di Mercuzio, uno dei personaggi più interessanti di “Romeo e Giulietta”. Di lui Romeo dice che “gli piace sentirsi parlare; parla più in un'ora di quanto ascolti in un mese”, ma probabilmente lo fa a ragione. Nel dramma dove tutti si fanno trascinare da sentimenti esagerati – che sia l’amore dei due giovani o l’odio delle due famiglie fa poca differenza – lui è l’unico che usa la testa, che prova a ragionare. Le frasi dell’incipit chiudono un monologo dove Mercuzio non ha fatto altro che criticare chi, come Romeo, sogna ad occhi aperti e non vive la realtà.

Mercuzio ci tiene a vivere, non vuole affatto morire. Morendo maledice le due famiglie che odiandosi hanno rovinato le vite di tanti, oltre a spegnere la sua. Mercuzio non vuole morire. Ma deve: affinché gli altri possano vivere la propria vita cavalcando le proprie emozioni, è doveroso e necessario che Mercuzio muoia.

Ora, c’è chi mi dice che la felicità di qualcuno non vale la tristezza di un altro, ma credo che non sia così: se Romeo e Giulietta si amano, Mercuzio deve morire. Il problema allora è un altro: vale la pena fare il Mercuzio e portarsi addosso uno spettro per permettere ai tuoi amici Giulietta e Romeo di amarsi, magari anche oltre la morte?
Mercuzio forse direbbe di no, ma può darsi che se fosse vissuto due secoli dopo, in pieno Romanticismo, avrebbe anche cambiato idea: infatti, in punto di morte il povero Mercuzio maledice le famiglie, non i due giovani amanti. Lui non vede con favore questo amore, ma sa che certe cose non si comandano, si prendono e basta così come sono.
E allora può anche andare bene fare Mercuzio se Giulietta e Romeo si parleranno ancora a quel balcone. Mercuzio quando muore si fa scappare anche un riso.


Mario Iaquinta

martedì 3 aprile 2012

I morti non deludono mai

Mi sembra un’eternità che non scrivo qualcosa, in generale ma soprattutto qui. In realtà non è passato neanche un giorno da quando, alla vecchia maniera, ho preso il candido foglio di carta ed una penna per provare a mettere quattro parole in croce.
Ma oggi riscopro, come un qualunque Jugale, che scrivere è un fatto di emozionalità. Spesso ci diciamo che l’Arte è una questione simbiotica, che essa dai noi prende e a noi da. Addirittura, c’è chi vede nello scrittore una sorta di sanguisuga, pronto a catturare le vite degli altri per farne una storia per proprio tornaconto economico. Ma la verità è che se ciò avviene, è perché lo scrittore è la prima vittima di se stesso. Anzi, non di se stesso, dell’Arte. Essa è un parassita, che si nutre del nostro sangue, della nostra linfa; un mostro attraente, una affascinante sirena che ci incanta per distruggerti. E ci distruggerà lentamente, senza remore e senza pietà. E probabilmente – anzi, sicuramente – farà male.
Scrivere è sempre stata un’operazione materialmente distruttiva: il foglio si graffia, si sporca, la mina si spezza e lascia parte di sé. Quello che non si immagina è che attraverso quell’inchiostro si sta perdendo anche un pezzo dell’anima.
È così, ma qualcuno te lo dovrebbe dire prima, come una sorta di contratto: vuoi prendere in mano quella penna? Allora le condizioni sono queste. Pensaci bene, perché non c’è diritto di recesso.”

Stamattina sto pensando di rompere questo strano contratto, prendermi una pausa: non scrivere più, almeno per un po’ di tempo. Perché ora mi accorgo che anche all’autodistruzione c’è un limite, che i graffi sulla pelle fanno più male di quelli sul foglio, che volevo fare il poeta maledetto ma che è un peso che adesso non riesco a reggere, che è da stamattina che ascolto di continuo la mia canzone preferita, “Dolcenera” e che sto violentando il tasto replay, che non riesco a gestire le emozioni che vivo e che per “mestiere” dovrei incanalare, almeno non adesso.
Deludo me stesso, ma solo i morti non deludono mai. È per questo che amo De André, è per questo che da sei ore sto ascoltando “Dolcenera”.




«Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell'innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra se stesso e l'oggetto del desiderio. È una storia parallela: da una parte c'è l'alluvione che ha sommerso Genova nel '70, dall'altra c'è questo matto innamorato che aspetta una donna. Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l'assenza, perché lei, in effetti, non arriva. Lui è convinto di farci l'amore, ma lei è con l'acqua alla gola.»
- Fabrizio De André su "Dolcenera"


Mario Iaquinta

venerdì 16 marzo 2012

Hai mai guardato la luna fra le dita?




NOTA: Questo è il racconto che avrei dovuto pubblicare la volta precedente. Sarà anche carino, romantico e sdolcinato, ma comincio già ad odiarlo. Perché nasce da considerazioni che forse non avrei mai dovuto fare, e credo stia facendo più danni che cose buone. Comunque, a voi il giudizio e la scelta di leggerlo o meno.


Nella remota regione di Zu viveva un vecchio eremita, considerato una vera e propria guida spirituale. Ma gli imputavano un difetto: era considerato scontroso da tutti, perché i governanti e i sapienti che andavano a chiedergli consiglio ricevevano risposte che non comprendevano, e quando questi insistevano il vecchio si irritava e li mandava via.
Un giorno un giovane contadino voleva interrogare il saggio, e di prima mattina si recò all’eremo; tuttavia, principi, notabili e governanti, scortati dal codazzo al loro seguito, gli imposero di cedere il posto. Il giovane, inerme di fronte a tale arroganza, non poté far altro che lasciare il passo, ritrovandosi infine a chiudere la fila. Quando giunse il suo turno gli fu detto che il saggio non riceveva più nessuno, trovando davanti a sé la porta chiusa. “Non è giusto” pensò, “sono qui da stamattina, così non me ne voglio andare!”. Il giovane si stese sull’erba a riposare, finché non sentì su di sé un’ombra: era il vecchio saggio.
«Giovanotto, cosa ci fai qui?»
«Oh, maestro, perdonatemi. Ero venuto qui stamattina per chiedere il vostro consiglio, ma sono stato costretto a cedere il posto ai signori. Volevo rimanere qui per domani mattina.»
«Dimmi ragazzo, cosa ti turba?»
«C’è una ragazza che temo di amare ed io…»
«Cosa significa “temere di amare”? Hai forse paura?»
«In realtà sì, maestro. Sono già stato ferito dall’amore in passato, ed ho timore di farmi male di nuovo.»
«E per questo hai paura? Mio caro giovane, evitare di innamorarsi per non stare poi male è come cavarsi tutti i denti per non soffrire poi di carie. Devi vivere le tue emozioni.»
«Ma ho paura… forse dovrei stare un po’ lontano, un po’ attento. Alzare qualche barriera per difendermi.»
Il vecchio saggio tacque per un po’, poi chiese: «Hai mai guardato la luna fra le dita?»
Il ragazzo fece una faccia strana, così il vecchio lo incoraggiò. «Guarda la luna, vedi come è bella? Adesso metti la mano davanti, e guarda la luna negli spazi fra le dita. Come la vedi?»
«Male, maestro.»
«Non è più così bella, vero?»
Il giovane annuì vigorosamente.
Il vecchio dunque riprese: «È così che funziona, ragazzo. Se tu metti dei limiti non potrai mai godere appieno della bellezza di qualcosa, di qualunque cosa. E se ci sarà da soffrire non devi spaventarti, anche questo ti aiuterà a crescere. Ora, mio caro giovane, entra dentro: magia qualcosa, prendiamo un tè insieme e raccontami di questa ragazza. Dormi qui, domani mattina tornerai da lei a dirle che l’ami. All’ombra della luna, che vedrete splendida e piena, perché le tue mani riempiranno le sue.»



Mario Iaquinta

domenica 11 marzo 2012

Fili

Come testimonia anche il titolo di questo blog, io ho un debole per la mitologia. Ebbene, narra il mito greco che la vita di un uomo è in mano al Fato - che è addirittura superiore agli dei – e che viene “gestita” da tre anziane donne: le Moire (o per dirla alla latina, le Parche), che come tutte le vecchiette di paese si dilettano nel tessile. Le tre graziose signore maneggiano dei fili, che tessono, filano e tagliano, i quali altro non sono che le vita degli uomini. Chi ha in dote dal Fato un filo lungo vive di più, al contrario di chi ha ricevuto un filo più corto.



Frankie Hi-NRG "Fili"


Io col Destino ho sempre avuto un rapporto strano: se c’è qualcosa di questo genere, in un modo o nell’altro ci va contro, non so se per divertimento o senso del dovere. Ma affidare la vita di un uomo nelle mani di tre vecchie forse non è stata la scelta migliore. Speriamo che queste tre arzille signore non si distraggano mai, arrivando addirittura ad intrecciare i fili…
Anche se, in realtà, credo che lo facciano continuamente. Tessono le vite degli uomini “come trame di un canto”, e fanno nodi così strani che è difficile sciogliere. È curioso come certe vite si intreccino, alcune dipendenti da altre, anche loro malgrado. Tiri un filo e se ne viene anche un altro, ne tagli uno per lasciare libero un secondo. E così, anche se non lo si vuole, le nostre vite si legano alle altre, i nostri passi sono condizionati da altri, e tutto per volere di tre signore che data l’età avanzata neanche ci vedono bene. Dunque ci vuol fortuna, e sperare che il nostro filo, qualora debba succedere, si intrecci in modo a noi utile e piacevole. E se ci leghiamo con un nodo, speriamo solo che ci vada bene.

P.S. Dovevo pubblicare un'altra cosa, un racconto, ma ora sentivo la necessità di scrivere queste cose


Mario Iaquinta

sabato 3 marzo 2012

Troppo cerebrale

"Il cuore ha le sue ragioni
che la ragione non conosce"
- Blaise Pascal

“Troppo cerebrale”: così cominciava una canzone di Samuele Bersani, la famosissima “Giudizi universali”. Quell’incipit nasceva dal fatto che Bersani aveva praticamente tutta la canzone in testa, ma non sapeva come iniziarla, ci pensava troppo… sì, troppo cerebrale.



Giudizi universali - Samuele Bersani


In quella canzone Bersani si lamentava di quante beghe si fa la mente in un rapporto facendo tacere il cuore, di quanto pensieri e preoccupazioni possano rovinare tutto, rompere l’incantesimo ed il sogno: “togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace!”.
Ora, lo so che sembrerà ridicolo, ma io sono così: “troppo cerebrale per capire che si può star bene senza calpestare il cuore”. O forse, siamo tutti un po’ così: ‘possiamo ma non vogliamo fidarci’, perché, come dice l’agente Smith in Matrix, l’essere umano riconosce come propria un’esistenza che contempli una certa sofferenza, e allora quando potremmo lasciarci andare e provare a volare rimaniamo sul ciglio a chiederci miliardi di volte se ne saremmo mai capaci, col risultato di rimanere dei tristi gargoyle che fissano immutati un cielo che si muove incurante sotto di loro.
E allora basta un niente e scoppia tutto, il “cerebrale” d’un tratto se ne va, ‘tira la maniglia della porta e va fuori’, portando con sé tutto ciò che avremmo voluto rimanesse. E così si ricomincia ad essere “troppo cerebrale”.


Mario Iaquinta

venerdì 24 febbraio 2012

Il Destino è un bambino capriccioso che gioca a scacchi


"Nella vita, a differenza che negli scacchi,
il gioco continua anche dopo lo scaccomatto."
(Isaac Asimov)


Per me, il gioco degli scacchi è splendido: è un’ordinata complessità che permette un numero praticamente infinito di mosse, dove ogni possibilità è nelle mani di chi gioca, di chi muove i pezzi. È un po’ come giocare col Destino, fra il bianco ed il nero.
Ma proprio l’estremo potere che il giocatore ha nei confronti delle sue pedine mi spinge a pensare che sia il Destino a giocare con noi, che siamo pedine scomposte sulla scacchiera, alla mercé di un bambino capriccioso mai cresciuto abbastanza per apprezzare appieno il potere che ha in mano. E allora questo bambino dispettoso muove e posiziona i pezzi come gli pare, fregandosene delle regole.
Non gli importa nulla che Re e Regina debbano stare l’uno vicino all’altro: mette un pezzo ad un angolo, e la sua controparte nell’angolo opposto, e poi ci gioca come coi soldatini.
Ed è terrificante pensare per un attimo a cosa possano sentire dentro di sé qui pezzi d’avorio che noi chiamiamo Alfiere, Torre o Pedone, mossi da una mano gigante che senza scrupoli li sposta come il vento fa con le nuvole. E cosa potranno pensare il Re e la Regina, complici e complementari da sempre, creati per stare assieme, trovandosi agli angoli estremi della scacchiera?
Forse un’infinita tristezza, forse un enorme rammarico. Perché se dipendesse da loro, se loro potessero muoversi, si correrebbero incontro, ma non possono. E magari pensano anche che quel bambino capriccioso lì in alto si stia divertendo a vederli così. E benché loro abbiano facoltà di muoversi in determinati modi, gli manca la possibilità pratica di farlo: perché è facile dire che la Regina può muoversi in ogni direzione di quante caselle voglia, ma se il giocare-Destino non la vuole spostare lei rimarrà lì a guardare la scena in disparte; ed il Re, il pezzo più esposto per natura, vede aumentare la sua solitudine se non è protetto dalla sua Regina.
È possibile che qualcosa del genere accada anche nella vita reale? Può succedere che il Destino posizioni lontano due anime simili? In tal caso, essi potranno cercarsi in eterno, ma se il Destino non decide di fare una mossa, il loro mondo si riduce ad una partita in stallo.


Mario Iaquinta

domenica 12 febbraio 2012

"La paura del distacco conduce al lato oscuro"?

"La paura del distacco conduce al lato oscuro, […]
l'attaccamento conduce alla gelosia,
l'ombra della bramosia essa è.
Esercitati a distaccarti
da tutto ciò che temi di perdere"
(Yoda in “Star Wars Episodio III – La vendetta dei Sith”)


Da bravo nerd comincio con una citazione, tratta addirittura dal non plus ultra del genere, Star Wars. Perché ho notato un piccolo cambiamento: vista la mia esperienza personale, avevo imparato a non sentire la mancanza delle persone, sostituendola con la nostalgia dei luoghi, cosa molto meno personale e dolorosa. Ma da un po’ di tempo mi accorgo che non è più così.
Sento che se perdessi il legame con alcune persone ne soffrirei da morire; ma la cosa peggiore è il mio pessimismo/realismo, che mi ha insegnato che niente dura per sempre, dunque so già da adesso che questi legami verranno a mancare, prima o poi.
È una cosa più o meno naturale, lo so, ma personalmente mi fa paura: perché significa che la mia felicità è nelle mani di queste persone, che io dipendo da loro, che il mio cuore non è più mio. Questo significa che quando loro se ne andranno dalla mia vita porteranno con sé un pezzo del mio cuore, mi lacereranno aprendomi una ferita dolorosissima che mi spaventa al solo pensiero. Ero riuscito a liberarmi da questa condizione, o almeno di questo mi ero illuso.
E allora che fare? Esiste davvero, come dice Yoda, un modo per ‘esercitarsi a distaccarsi da ciò che temiamo di perdere’? Ma poi, ne vale davvero la pena?
Non ne ho idea, ma una cosa la so: se temo di perdere queste (poche) persone, allora vuol dire che a loro voglio davvero bene.


Mario Iaquinta

venerdì 3 febbraio 2012

In fondo, gli amori non finiscono mai

Forse non sono più quello di una volta, o forse semplicemente non sono mai stato “quello di una volta”. Nel saliscendi di umori che in questi giorni mi tormenta (e gli sparuti lettori a questo punto diranno: “A noi che ce ne importa?”), c’è qualcosa che – ahimè – rimane fisso: un retrogusto amaro, sapore di qualcosa di incompiuto. Perché non tutte le cose arrivano alla loro naturale conclusione, ma spesso dobbiamo troncarle così come sono, perché non dipende solo da noi.
E quando non riusciamo a scrivere la parola fine, ci tocca comunque girare pagina. Con una eccezione, e non da poco. I legami: perché non puoi buttare via un filo che non riesci a vedere, non puoi chiudere qualcosa che non ti appartiene. E dunque, in fondo, gli amori non muoiono mai. Qualcosa resta sempre: una traccia, una cicatrice, una scia; come un tatuaggio sbiadito, il segno rimane. Soprattutto, rimane il ricordo, che col tempo, inesorabilmente, diventa un bel ricordo.



La canzone dei vecchi amanti - Franco Battiato

E quindi, sempre più spesso, siamo noi a lasciare in sospeso, a tener vivo al lumicino qualcosa di intangibile; ed esageriamo: per poterci illudere di poter chiudere qualcosa che non possiamo chiudere, andiamo a cercarci ciò che è per noi inarrivabile.
Sì, è colpa nostra, perché lo facciamo di proposito: vogliamo desiderare ciò che non possiamo avere, vogliamo amare chi non possiamo avvicinare, vogliamo il dolore che ci è dato dalla mancanza. Forse lo vogliamo perché cercare è un modo per muoversi, per sentirsi vivi.


Mario Iaquinta

sabato 28 gennaio 2012

"Monologo" significa non aver nessuno con cui parlare


Quando sento la necessità di dire cose (pensieri, stati d’animo) che io non posso esprimere direttamente (vuoi per l’immagine di me che ho costruito, vuoi perché dette da me non sarebbero credibili), uso una scappatoia tipica di molti artisti: parlare attraverso un personaggio. Così, ogni tanto, con un atto di suprema crudeltà, creo un personaggio dalla vita brevissima che ha il solo scopo di fare un monologo. Li creo uno per volta, e non avendo nessuno con cui parlare, si abbandonano ai monologhi.

Oggi è la volta di Tristano, nome che significa “tumultuoso”, ma anche “triste”.

“Ascoltavo una canzone, di quelle metal che la gente associa al Demonio; sono cazzate, il Demonio non c’entra. Così come non c’entrava nell’ode A Satana di Carducci. Ci vuole un po’ di intelligenza, ma poi ci arrivi e lo capisci…
Stavo dicendo: ho ascoltato una di queste canzoni: stupenda, un testo splendido. Una frase, un verso mi ha colpito, e più o meno recitava così: “Non mi sveglierò per veder nascere una nuova rosa nera”. Io lo trovo sublime, e vorrei tanto averlo scritto io. Perché è quello che sono, quello che sono diventato. No, io non sono la rosa nera, io sono quello che non vuole svegliarsi per essa. Perché sono stanco di questo giardino asfittico che mi circonda, dove il colore muore e le uniche venature sono le gocce di sangue sulle spine. No, basta: un’altra rosa nera non la posso sopportare.
Non ho mai chiesto alla vita di rendermi felice, non sono mai stato così stupido. Non volevo l’Eden intorno a me: mi sarei accontentato di un giglio qua e là, gettati alla rinfusa in un anonimo verde insapore. Invece sono circondato dal buio di un roseto sporco, dove la luce perde ogni sostanza. Darei il mio sangue per colorare di rosso uno di questi fiori, per riuscire a spezzare questo umore monotono. Ma non c’è niente da fare: i semi cadono dal cielo grigio, e intorno a me solo rose nere.
Fra questi cespugli non vedo persone, immagini, ricordi, sensazioni, emozioni. Non c’è un amico che mi poggia la mano sulla spalla, mi indica una figura lontana lontana e mi dice: «Guarda, c’è Lei». No, non ci sono amici, e non c’è Lei, e forse è meglio così. Niente di tutto questo, solo nero.
E allora, signori miei, buonanotte. Io chiudo gli occhi per dormire. E non disturbatemi, perché ‘non mi sveglierò per veder nascere una nuova rosa nera’”.


Mario Iaquinta

martedì 24 gennaio 2012

L'esercito delle forchette

Correva l’anno 1789, e in Francia scoppiava qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la storia del mondo, la cosiddetta “Rivoluzione Francese”. Ovviamente in Italia qualcosa del genere non è mai accaduto, e gente come Mario Monicelli ne sentiva la mancanza.

In questi giorni c’è gente che parla di “rivolta” e “rivoluzione”: i “Forconi” che come garibaldini armati di automezzi risalgono la penisola bloccando le arterie stradali ed il conseguente trasporto. Chi si è lasciato “trasportare” da questi entusiasmi dice che finalmente il Sud s’è svegliato, che gli italiani non ci stanno più, ecc ecc.


In realtà, non è vero niente: nessuno s’è svegliato, nessuno si ribella davvero. Questa protesta non è romantica, come qualcuno crede o forse spera: è materiale e materialista più di ogni altra cosa. Tutto nasce per il prezzo della benzina, nessun ideale e nessuna idea, solo portafoglio e gasolio.

Con tutto quello che è successo in Italia in questi anni alla fine si protesta per la benzina: non importa che i nostri rappresentanti sono nominati per noi e non eletti da noi, non importa che alla Cultura è stata data un’altra decisiva mazzata: l’importante è che la benzina non superi i due euro.



Rivoluzione - Frankie Hi-NRG


Ma diciamo che ci potrebbe anche stare: in fin dei conti anche la gloriosa Rivoluzione Francese è nata così, per il prezzo del pane. Con una differenza: i francesi non hanno bloccato le strade di Parigi, ma sono andati a protestare a Versailles, sotto il naso del re; e poi se la sono presa con i palazzi del potere, attaccando la Bastiglia.

Perché protestare così non serve a molto, forse a niente: paralizzare in tempo di crisi una parte del paese, per giunta la parte che atavicamente soffre di più, colpisce maggiormente la povera gente piuttosto che il famigerato “potere” che sembra nato per andarci sempre contro: senza generi alimentari, senza benzina siamo costretti a fermarci, e così si ferma tutto. Si fermano attività e produzioni, e la cosa peggiora anziché migliorare. E i forconi diventano forchette.


Ancora una volta è il caso di citare Fabrizio De André, in una canzone di dieci anni fa, ma mai così attuale, “La Domenica delle Salme”, che chiude così:


“mentre il cuore d’Italia,
da Palermo ad Aosta,
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta”
:
e poi si ode il frinire dei grilli.

Ecco, questo è il “coro di vibrante protesta”

Mario Iaquinta

sabato 14 gennaio 2012

Lo "scrittore" Jones

Mi rifaccio a Fabrizio De André ancora una volta. Nella sua non vastissima discografia, emerge un personaggio particolare: è il suonatore Jones, una delle anime del cimitero di Spoon River che riemerge nell’LP “Non al denaro, non all’amore ne al cielo”. La particolarità di questo personaggio è che, al contrario degli altri defunti che ‘dormono sulla collina’, lui è una sorta di vincente: se n’è sempre sbattuto delle costrizioni che una vita regolare - quella per cui la società ci “programma” fin da bambini – impone a tutti noi, senza “mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo”. Se l’è goduta fino all’ultimo, suonando il suo flauto (violino nella versione di Lee Masters) sempre e solo quando aveva voglia, per passione e piacere. Il risultato: 90 anni tondi tondi, “ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”.




Credo e spero che per lo scrivere sia un po’ la stessa cosa. Solo che chi questo “mestiere” vuol farlo seriamente deve avere “metodo” – così dicono quelli bravi, o quelli che scrivendo ci campano. Ecco, io un “metodo” vero e proprio non ce l’ho, scrivo sulla scia dell’emozione e mi accorgo che se mi metto a tavolino a scrivere perché “devo”, mi escono fuori delle boiate pazzesche. Quando poi vado a rileggere, mi salta subito all’occhio ciò che ho scritto quando ero "ispirato" e ciò che ho scritto per “dovere”.

Forse, come tutte le cose del resto, la verità sta nel mezzo: se decidi di scrivere una storia bisogna pure che termini il racconto, senza procrastinare indefinitamente perché non hai “l’Ispirazione”. E allora lo “scrittore Jones” se ne farà una ragione: non sempre si può ‘giocare con la vita’, neanche quando c’è di mezzo la propria passione. Magari ci sarà qualche rimpianto, ma si spera che siano accompagnati da altrettante soddisfazioni.



Mario Iaquinta

giovedì 12 gennaio 2012

I libri e le donne


Alcuni giorni fa scrissi su Facebook questa frase:

“Una donna, per quanto bella sia, non vale un buon libro”.

Ne seguì una discussione “digitale” in cui (paradossalmente) i maschi sostenevano che avessi detto una castroneria galattica, mentre le donne mi davano grossomodo ragione (specificando che però il discorso vale anche al contrario, cioè che una donna può preferire un buon libro ad un bell’uomo; e per la cronaca, sono d’accordo).
Ora, prima che la gente mi appelli “sessista” o “misogino” preferisco fare qualche specificazione, e magari offrire qualche spunto di riflessione a qualche sciagurato che dovesse imbattersi suo malgrado in queste righe.


Il mio amore per i libri è viscerale: mi piace vederli tutti allineati nella mia libreria, mi piace accarezzarne il dorso, sfiorarne la copertina e toccare le pagine, annusarli quando sono nuovi ed hanno un odore caratteristico che non sono in grado di descrivere. Ora penserete che sono un pazzo, e forse avete ragione: però, potete stare tranquilli, non li lecco…
Ma soprattutto, mi piace leggerli. Chi ama leggere ama i libri, non c’è via di scampo. Anche perché il rapporto con un libro è semplice, diretto e profondo: se un libro è capace di emozionare lo si amerà nel vero senso della parola: si proverà affetto per quel mucchietto di pagine e ci sarà addirittura un certo dispiacere quando avremo finito di leggerlo.


Ma qui si potrebbe obiettare: “Sì, noi amiamo i libri ma mica loro ci possono amare. È un amore non corrisposto”. Sbagliato! Se c’è una cosa di cui non si può dubitare è l’amore dei libri verso di noi! Essi sono nati per noi, vivono per noi, e il loro unico scopo è quello di arricchirci e farci star bene: parafrasando Barthes, il loro unico scopo (perché per questo sono nati) è farci “godere”. Loro faranno tutto quello che possono per noi, e se non saranno all’altezza non si lamenteranno mai di essere accantonati perché insoddisfacenti. Con un libro ci si ama a vicenda, senza ipocrisie e falsi moralismi, spogli di rancori e capricci. E se non è vero amore questo…


Certo, non sono così cretino da non capire che una è un libro sono, quanto meno, su piani diversi. Ma ultimamente mi hanno dato molta più soddisfazione “Dracula” e “Notre Dame de Paris” che i tentativi (che come oramai sarà chiaro anche al lettore più idiota, non sono stati per niente felici) con le ragazze. Ora perdonatemi, ma voglio fare un po’ l’amore con “Il conte di Montecristo”.



Mario Iaquinta

domenica 1 gennaio 2012

Happy new ear

Finisce un anno e ne comincia un altro, e diventa quasi doveroso, per qualunque cretino che abbia uno spazio (misero) sul web, dire qualcosa. In realtà, non ci sarebbe molto da dire: di solito si afferma che l’anno appena finito era da schifo, mentre quello che sta arrivando si spera sarà straordinario, salvo diventare a sua volta uno schifo quando sarà finito.
Non è, come al solito, per fare il Bastian contrario, ma il 2011 è stato per me un buon anno. Oltre ad alcuni traguardi raggiunti (primo fra tutti la laurea, ma anche il successo del FRU o il primo “riconoscimento” della mia piccola carriera artistica, ad esempio), spiccano le nuove amicizie e quelle vecchie consolidate: scoperto e riscoperto legami con (ormai ex) colleghi d’università, una “sorella” tutta speciale, ragazzi che vogliono riaprire i microfoni di una radio, esploratori della galassia di Star Wars che mi chiamano “senatore”, un prof relatore fantasma, giornalisti e cinici, fotografi e santi, cortometraggi e...
Sull’altro lato della medaglia ci sono l’allontanamento di alcune persone, una forte ferita sul cuore, ombre scure e uomini in nero dagli attacchi gratuiti e senza senso, qualche lacrima nascosta, bocconi mandati giù lo stesso. Ma anche queste sono cose buone: se è vero che ciò che non ti uccide ti fortifica, queste delusioni sono state tutte mattoncini per la costruzione di un muro che si spera sia invalicabile.
Il problema non è il 2011, ma il 2012. No, non c’entrano niente i Maya e Giacobbo; è che un romantico come me vive sempre con un occhio al passato, cercando di nascondere così una folle ed inutile paura del futuro. Perché si sa quello che si lascia, non quello che si trova.


Arriverà, come sempre, quello che non si sta cercando?


Per questo “happy new ear”, “felice nuovo orecchio”: spero di avere un buon orecchio, di saper ascoltare i suggerimenti che la Vita sospira sottovoce, augurandomi che siano buoni consigli. Ma, molto più probabilmente, questo 2012 ci farà semplicemente più vecchi, e non più saggi. Sta a noi smentirlo.



Mario Iaquinta
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