"Benvenuto in mia casa. Entrate e lasciate un po' della felicità che recate"
(Dracula)

martedì 3 aprile 2012

I morti non deludono mai

Mi sembra un’eternità che non scrivo qualcosa, in generale ma soprattutto qui. In realtà non è passato neanche un giorno da quando, alla vecchia maniera, ho preso il candido foglio di carta ed una penna per provare a mettere quattro parole in croce.
Ma oggi riscopro, come un qualunque Jugale, che scrivere è un fatto di emozionalità. Spesso ci diciamo che l’Arte è una questione simbiotica, che essa dai noi prende e a noi da. Addirittura, c’è chi vede nello scrittore una sorta di sanguisuga, pronto a catturare le vite degli altri per farne una storia per proprio tornaconto economico. Ma la verità è che se ciò avviene, è perché lo scrittore è la prima vittima di se stesso. Anzi, non di se stesso, dell’Arte. Essa è un parassita, che si nutre del nostro sangue, della nostra linfa; un mostro attraente, una affascinante sirena che ci incanta per distruggerti. E ci distruggerà lentamente, senza remore e senza pietà. E probabilmente – anzi, sicuramente – farà male.
Scrivere è sempre stata un’operazione materialmente distruttiva: il foglio si graffia, si sporca, la mina si spezza e lascia parte di sé. Quello che non si immagina è che attraverso quell’inchiostro si sta perdendo anche un pezzo dell’anima.
È così, ma qualcuno te lo dovrebbe dire prima, come una sorta di contratto: vuoi prendere in mano quella penna? Allora le condizioni sono queste. Pensaci bene, perché non c’è diritto di recesso.”

Stamattina sto pensando di rompere questo strano contratto, prendermi una pausa: non scrivere più, almeno per un po’ di tempo. Perché ora mi accorgo che anche all’autodistruzione c’è un limite, che i graffi sulla pelle fanno più male di quelli sul foglio, che volevo fare il poeta maledetto ma che è un peso che adesso non riesco a reggere, che è da stamattina che ascolto di continuo la mia canzone preferita, “Dolcenera” e che sto violentando il tasto replay, che non riesco a gestire le emozioni che vivo e che per “mestiere” dovrei incanalare, almeno non adesso.
Deludo me stesso, ma solo i morti non deludono mai. È per questo che amo De André, è per questo che da sei ore sto ascoltando “Dolcenera”.




«Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell'innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra se stesso e l'oggetto del desiderio. È una storia parallela: da una parte c'è l'alluvione che ha sommerso Genova nel '70, dall'altra c'è questo matto innamorato che aspetta una donna. Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l'assenza, perché lei, in effetti, non arriva. Lui è convinto di farci l'amore, ma lei è con l'acqua alla gola.»
- Fabrizio De André su "Dolcenera"


Mario Iaquinta

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