"Benvenuto in mia casa. Entrate e lasciate un po' della felicità che recate"
(Dracula)

venerdì 24 febbraio 2012

Il Destino è un bambino capriccioso che gioca a scacchi


"Nella vita, a differenza che negli scacchi,
il gioco continua anche dopo lo scaccomatto."
(Isaac Asimov)


Per me, il gioco degli scacchi è splendido: è un’ordinata complessità che permette un numero praticamente infinito di mosse, dove ogni possibilità è nelle mani di chi gioca, di chi muove i pezzi. È un po’ come giocare col Destino, fra il bianco ed il nero.
Ma proprio l’estremo potere che il giocatore ha nei confronti delle sue pedine mi spinge a pensare che sia il Destino a giocare con noi, che siamo pedine scomposte sulla scacchiera, alla mercé di un bambino capriccioso mai cresciuto abbastanza per apprezzare appieno il potere che ha in mano. E allora questo bambino dispettoso muove e posiziona i pezzi come gli pare, fregandosene delle regole.
Non gli importa nulla che Re e Regina debbano stare l’uno vicino all’altro: mette un pezzo ad un angolo, e la sua controparte nell’angolo opposto, e poi ci gioca come coi soldatini.
Ed è terrificante pensare per un attimo a cosa possano sentire dentro di sé qui pezzi d’avorio che noi chiamiamo Alfiere, Torre o Pedone, mossi da una mano gigante che senza scrupoli li sposta come il vento fa con le nuvole. E cosa potranno pensare il Re e la Regina, complici e complementari da sempre, creati per stare assieme, trovandosi agli angoli estremi della scacchiera?
Forse un’infinita tristezza, forse un enorme rammarico. Perché se dipendesse da loro, se loro potessero muoversi, si correrebbero incontro, ma non possono. E magari pensano anche che quel bambino capriccioso lì in alto si stia divertendo a vederli così. E benché loro abbiano facoltà di muoversi in determinati modi, gli manca la possibilità pratica di farlo: perché è facile dire che la Regina può muoversi in ogni direzione di quante caselle voglia, ma se il giocare-Destino non la vuole spostare lei rimarrà lì a guardare la scena in disparte; ed il Re, il pezzo più esposto per natura, vede aumentare la sua solitudine se non è protetto dalla sua Regina.
È possibile che qualcosa del genere accada anche nella vita reale? Può succedere che il Destino posizioni lontano due anime simili? In tal caso, essi potranno cercarsi in eterno, ma se il Destino non decide di fare una mossa, il loro mondo si riduce ad una partita in stallo.


Mario Iaquinta

domenica 12 febbraio 2012

"La paura del distacco conduce al lato oscuro"?

"La paura del distacco conduce al lato oscuro, […]
l'attaccamento conduce alla gelosia,
l'ombra della bramosia essa è.
Esercitati a distaccarti
da tutto ciò che temi di perdere"
(Yoda in “Star Wars Episodio III – La vendetta dei Sith”)


Da bravo nerd comincio con una citazione, tratta addirittura dal non plus ultra del genere, Star Wars. Perché ho notato un piccolo cambiamento: vista la mia esperienza personale, avevo imparato a non sentire la mancanza delle persone, sostituendola con la nostalgia dei luoghi, cosa molto meno personale e dolorosa. Ma da un po’ di tempo mi accorgo che non è più così.
Sento che se perdessi il legame con alcune persone ne soffrirei da morire; ma la cosa peggiore è il mio pessimismo/realismo, che mi ha insegnato che niente dura per sempre, dunque so già da adesso che questi legami verranno a mancare, prima o poi.
È una cosa più o meno naturale, lo so, ma personalmente mi fa paura: perché significa che la mia felicità è nelle mani di queste persone, che io dipendo da loro, che il mio cuore non è più mio. Questo significa che quando loro se ne andranno dalla mia vita porteranno con sé un pezzo del mio cuore, mi lacereranno aprendomi una ferita dolorosissima che mi spaventa al solo pensiero. Ero riuscito a liberarmi da questa condizione, o almeno di questo mi ero illuso.
E allora che fare? Esiste davvero, come dice Yoda, un modo per ‘esercitarsi a distaccarsi da ciò che temiamo di perdere’? Ma poi, ne vale davvero la pena?
Non ne ho idea, ma una cosa la so: se temo di perdere queste (poche) persone, allora vuol dire che a loro voglio davvero bene.


Mario Iaquinta

venerdì 3 febbraio 2012

In fondo, gli amori non finiscono mai

Forse non sono più quello di una volta, o forse semplicemente non sono mai stato “quello di una volta”. Nel saliscendi di umori che in questi giorni mi tormenta (e gli sparuti lettori a questo punto diranno: “A noi che ce ne importa?”), c’è qualcosa che – ahimè – rimane fisso: un retrogusto amaro, sapore di qualcosa di incompiuto. Perché non tutte le cose arrivano alla loro naturale conclusione, ma spesso dobbiamo troncarle così come sono, perché non dipende solo da noi.
E quando non riusciamo a scrivere la parola fine, ci tocca comunque girare pagina. Con una eccezione, e non da poco. I legami: perché non puoi buttare via un filo che non riesci a vedere, non puoi chiudere qualcosa che non ti appartiene. E dunque, in fondo, gli amori non muoiono mai. Qualcosa resta sempre: una traccia, una cicatrice, una scia; come un tatuaggio sbiadito, il segno rimane. Soprattutto, rimane il ricordo, che col tempo, inesorabilmente, diventa un bel ricordo.



La canzone dei vecchi amanti - Franco Battiato

E quindi, sempre più spesso, siamo noi a lasciare in sospeso, a tener vivo al lumicino qualcosa di intangibile; ed esageriamo: per poterci illudere di poter chiudere qualcosa che non possiamo chiudere, andiamo a cercarci ciò che è per noi inarrivabile.
Sì, è colpa nostra, perché lo facciamo di proposito: vogliamo desiderare ciò che non possiamo avere, vogliamo amare chi non possiamo avvicinare, vogliamo il dolore che ci è dato dalla mancanza. Forse lo vogliamo perché cercare è un modo per muoversi, per sentirsi vivi.


Mario Iaquinta
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